La nascita e la morte sono i due momenti che rendono “possibile” l’esistenza dell’individuo. Dalle parole legate ai riturali e alle tradizioni che accompagnano il nascere e il morire, possiamo comprendere quanto l’individuo era legato nella tradizione rurale alla comunità. Ne era infatti parte integrante, nella gioia e nel dolore.
Parole di memoria, la vita e la morte, le tradizioni a Coreno Ausonio
Un po’ di comunità nasceva e moriva con ciascuno dei suoi membri, eppure attraverso la solidarietà e il mutuo aiuto si compiva in qualche modo un piccolo, profondo miracolo di rinascita e resilienza. Ogni volta che si nasceva, ogni volta che si moriva.
Parole di memoria. Febbraio 2023 , Località: Curthi Coreno Ausonio (FR) [riprese Sergio Monetta; starring Tonino aka mio padre, con la partecipazione di Antonio Parente]
Qui il racconto delle tradizioni legate alla nascita e alla morte a Coreno Ausonio, il nostro piccolo paese in provincia di Frosinone, nella parole di memoria di Antonio (Tonino) Buongiovanni, mio padre, classe 1944.
“Parole di memoria è un format che ho ideato e realizzato perché credo che le parole parlino di noi e che il nostro dialetto ci restituisca le radici e un po’ di ciò che siamo”. Chiara B.
Parole di memoria, la rubrichetta sul dialetto e le tradizioni
Parole di memoria è la rubrichetta dedicata alle camminate in natura, con mio padre, e alle espressioni del nostro dialetto che incontriamo.
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“Il caos da cui veniamo” / “Il corpo in cui sono nata” .
“Da cui” / “in cui”: c’è come un azzeramento di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzionalità in avanti ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e (forse) parzialmente ci sopravviveranno attraverso altri.
Il caos e il corpo, fenomenologia delle radici
A fine ferie mi capita di passare delle giornate nella “mia” casa di famiglia: dove io sono nata e cresciuta, dove vivono i miei genitori, dove sono vissuti i miei nonni che fino all’anno scorso erano presenti, tramandati attraverso il corpo, i ricordi e i molti decenni di vita di mia nonna. In questa casa, in questi giorni, ci siamo io e mio fratello.
Ma le radici hanno una strana fenomenologia. Quando trovano il vuoto iniziano ad emergere, più forti, prepotenti, inevitabili. Per questo, questi giorni di assenza, sono pieni di presenza. Ed è strano come alla fine dei cortocircuiti di memoria che mi attraversano, mentre salgo le scale, mentre cerco nei cassetti, mentre guardo come da quarantadue anni a questa parte fuori dalla finestra, verso la piazza del paese, io mi incontri a ritroso con me stessa.
Immagino che, per vie e vite personali, questo sia il percorso che Tiffany McDaniel abbia ripercorso ed esplorato, scandagliato con enorme onestà e amore nel suo bellissimo libro “Il caos da cui veniamo“, ispirato alla storia di sua madre. Letto con passione già qualche tempo, mi è stato richiamato alla mente dalla più recente lettura de “Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel (più famosa per il suo “La figlia unica)
La semantica di entrambi i titoli è molto potente: il primo libro mi ha attratto tantissimo proprio a partire dal titolo, il secondo è stato in realtà un regalo. Questo accendere le preposizioni di moto da/in luogo nel viaggio della vita è una scelta di grande consapevolezza e coraggio. “Da dove” / “in cui”. C’è come un azzeramento percepito di intenzionalità, non c’è propensione, non c’è direzione in avanti: ma c’è la provenienza e c’è lo stato in luogo, di qualcosa che è successo lì e non si sposterà altrove. Sono le preposizioni che nella grammatica dell’esistenza per me accompagnano il tempo del “presente perfetto”. Completo. Aperto e chiuso allo stesso tempo. Con delle certezze che moriranno solo con noi, e forse parzialmente ci sopravviveranno in altri.
L’uso appropriato e consapevole di queste preposizioni nella grammatica dell’esistenza è una fondamentale conquista, che non può che esserci regalata da esperienza, coraggio e visione, in relazione assolutamente personale e non matematica con la nostra età che avanza. (E non sono affatto sicura che sia poi una conquista di tutti/e) Il momento della vita in cui ne prendiamo consapevolezza è un momento fondante, di grande liberazione. Il momento in cui diamo voce alla nostra scoperta, puntuale e al tempo stesso sequenziale e rinnovata nel tempo, e scegliamo di raccontare, come hanno scelto di fare le due scrittrici, è un momento di grande poesia.
Per questo “Il caos da cui veniamo” e “Il corpo in cui sono nata” sono due libri di prosa, due memoir se vogliamo, intrisi di questa poesia. Di questa forza propria della “poiesis” che ci forgia, nella genetica e dunque nei nostri tratti somatici come nella nostra cifra esistenziale e nella sintesi travagliata delle cose che si chiama “identità”. Le radici sorreggono chi siamo e gli danno forma, oltre la forma. Questa sono io, perché vengo “da” e sono nata “in”. Questa qui sono io.
“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel chiama “Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel
“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel la scrittura di una esploratrice cosmica
“Il Caos da cui veniamo” di Tiffany McDaniel, edizione Atlantide è diventato uno dei miei libri del cuore. Confesso di averlo scelto a caldo per il titolo, non avevo mai letto nulla di questa scrittrice (la bella edizione Atlantide ha probabilmente avuto un ruolo nella scelta tra gli scaffali della Libreria ELI, tra le mie preferite a Roma). Una poesia, una purezza, un’eplorazione profondissima e avvincente. Un libro tragico che finisce per decantare la vita. De-cantare, osservarla quando sembra stagnare, putrefarsi e lasciarsi tuttavia incantare dalla scintilla originaria. Dedicato alla figura della madre dell’autrice, “l’Indianina”, che ne è anche la protagonista (Bitty), il libro è illuminato dalla smisurate figure di un padre e una madre in un dualismo delle origini che non può che accompagnarci nella ricerca, a ritroso, di chi siamo. Nella ricerca, che non culminerà nella comprensione ma nell’amore, di quel caos originario che ci ha partorito come stelle impazzite di luce e tragedia.
“Caos. Un termine che indica confusione, disordine, un caleidoscopio infranto di irrequietezza. In fisica designa ciò che esisteva prima della creazione dell’universo: il nulla informe. Nella mitologia greca, Caos è l’essere primigenio. Qualcuno può pensare che la mia famiglia corrisponda a tutto questo. Una madre e un padre in un vortice di irrequietezza. Figli che vivono nel disordine, nella confusione assoluta. Questo siamo noi. I Lazarus. Un caleidoscopio infranto. Si, forse siamo il caos. Ma è stato una meraviglia esserlo”.
E non importa in questo libro quanto sia fantastico e quanto sia reale. C’è dentro verità.
“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel ovvero “la bellezza fatta donna”
“Il corpo in cui sono nata”, di Guadalupe Nettel, edizione La Nuova Frontiera mi è stato regalato con una dedica che recitava: “Alla bellezza fatta donna”. La dedica mi ha fatto sorridere, perché avevo intuito una misconcezione di base da parte del “donatore di libri” (che mantengo per sua richiesta anonimo) proprio a partire dal titolo.
A fine lettura, mi ritrovo sorpresa da come il senso di questa dedica possa sposare il senso del libro, in un certo senso (e mi scuso per il trasbordare di “senso” in cui a quanto pare sono andata a cadere). Il libro è una sorta di memoir che parte dall’infanzia, segnata dagli irriverenti anni ’70 e da un importante difetto di vista, e attraversa con salti avanti e indietro nel tempo l’esistenza della scrittrice. La persona che nasce attraverso questo libro è bella, perché è una persona che diventa finalmente un tutt’uno con il suo corpo. Quel preciso corpo è suo da sempre, eppure la scrittrice ne riesce a prendere “pieno possesso” solo attraverso ciò che altri hanno inciso proprio lì, nel suo corpo fisico, familiare, sociale. Al centro il rapporto con la madre, la nonna, il padre poco presente ma determinante (come sempre) e due continenti, in un walzer di vita e di morte, reale e apparente.
C’è un apice, un punto di non ritorno, che è quello in cui
“finalmente, dopo un lungo periplo, ci decidiamo ad abitare il corpo in cui nasciamo, con tutte le sue particolarità e a renderci conto che in fin dei conti è l’unica cosa che ci appartiene e ci vincola in modo tangibile al mondo, e insieme ci permette di distinguercene”.
(nel testo in prima persona, ndr)
Il viaggio per arrivare fin qui, in un continuo rimbalzare, slabbrare, richiudersi e rispalancarsi di confini fisici e invisibili è quello che fa di noi “bellezza”. La bellezza fatta persona. Visibile, tangibile, corporea e mai perfettamente afferrabile nel momento presente. Non è un viaggio semplice, quello che ci porta a sentirci un tutt’uno con il nostro corpo, fino a regalarci la libertà della consapevolezza che il “corpo in cui siamo nati non è lo stesso con cui lasciamo il mondo“, eppure in quel corpo siamo nati proprio noi. E solo noi.
#unlibrochiamalatro sinapsi letterarie è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.
Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.
Cos’è la folla oltre la somma delle individualità? Cosa è il pensiero quando perde l’originalità e la responsabilità del singolo? Cosa ne consegue è, forse, sempre tragedia.
Attycus Finch, eroe tragico nel romanzo “Il buio oltre la siepe” dell’ineguagliabile Harper Lee (edizioni Feltrinelli) mi richiama alla mente Alain de Monéys e la sua storia (vera) raccontata in “Vita breve di un giovane gentiluomo da Jean Teulé (edizioni Neri Pozza)
Due libri da leggere, al tempo in cui abitiamo i social media. O meglio, in ogni tempo abitato da esseri umani.
A giugno è ricorso il quarantesimo anniversario del premio Pulitzer per la narrativa a Harper Lee con il “Il buio oltre la siepe”. Un libro necessario , come definito da Barack Obama, che ben prima di essere il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America è stato un community organizer a Chicago, lavorando sull’emancipazione e la presa di coscienza dei propri diritti da parte della comunità afro-americana.
Vero, un libro bello, semplice nella sua bellezza come sanno essere solo i libri capaci di colpire, affondare e far tornare a galla l’umanità profonda e complessa che ci abita e ci muove e ci collega.
Da sempre indicato come un libro da leggere contro ogni forma di discriminazione e razzismo, “Il buio oltre la siepe” mi sembra un universale, godibilissimo, sulla natura umana, sulle divisioni e gli steccati che per nostra natura costruiamo e che, per dinamiche sociali, ingigantiamo fino a istituzionalizzarli scientemente o ad assimilarli inconsciamente arrivando ad abdicare scelleratamente alla nostra capacità critica e morale.
“Il buio oltre la siepe” e le lanterne umane
Esistono delle lanterne umane. Gli Atticus Fynch che incontriamo o manchiamo nelle nostre vite, che sono vigili e accese nella nostra società e che permettono che la loro lucetta arrivi anche a noi per propagazione. E le cinghie di trasmissione luminosa sono spesso le più giovani generazioni. Quello che ascoltano, quello che vedono, quello che non capiscono e le interpretazioni che vengono loro proposte dei fatti sono, in gran parte, ciò che in una società fa la differenza per il presente e per il futuro.
La piccola Scout Fynch è colei che, insieme al fratello Jem, nel romanzo di Harper Lee raccoglie la fiammella di una lanterna “gigante” che è il suo papà Atticus Finch. Avvocato. Rispettatissimo avvocato a Maycomb, città “vecchia e stanca” nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America, che si ritrova l’intera comunità contro per aver accettato di assumere la difesa di Tom Robinson, giovane dalla pelle nera accusato di stupro da una giovane dalla pelle bianca. Una figura che mi fa venir voglia retroattiva di fare l’avvocato. Per la sua interpretazione della professione e la sua pratica. Leggere per credere.
Il libro è superlativo da numerosi punti di vista e profondamente emozionante, ma è della sinapsi inaspettata che mi ha attivato che vorrei parlare. Partiamo della scampata aggressione ad Attycus da parte di un manipolo di cittadini di Maycomb, a cui i figli si trovano ad assistere.
In particolare, la figlia Scout “sventa” l’aggressione riconoscendo tra gli aggressori il signor Cunningham, il papà di un suo compagno di scuola. Candidamente identificandosi come “la compagna di scuola e colazioni di suo figlio Walter” getta in crisi d’identità l’aggressore. (Sono il papà di Walter, amico di Scout, figlia di Attycus e sono qui l’aggressore, ciecamente arrabbiato con Attycus!). Quando, il giorno seguente, la bambina stupita chiede al padre come sia possibile che tra gli assalitori ci fosse l’amico di famiglia ed estimatore di Attycus, il signor Cunningham, la risposta di Attycus è un trattato di antropologia e misericordia, che forse è l’unico binomio che ci salverà dal baratro.
Scout “Credevo che il signor Cunningham fosse un nostro amico: tanto tempo fa mi hai detto che lo era”.
Attycus “E lo è ancora!” S “Però stanotte voleva… farti del male”
A “Il signor C. È un brav’uomo, ma come tutti noi ha le sue debolezze”. Jem (fratello di S.) “Non chiamarla debolezza. Quando è arrivato alla prigione stanotte ti avrebbe persino ucciso”.
A “Avrebbe potuto farmi qualcosa, ma figliuolo quando sarai più grande capirai un po’ meglio la gente. Una folla è fatta di individui, quali che siano. Stanotte C. faceva parte di una folla ma era pur sempre un uomo. Come tutte le folle di tutte le piccole città del Sud, anche quella di Maycomb è fatta di uomini che conosciamo… anche se ciò non li scusa, ti pare?”.
J “Direi di no”
A “E infatti c’è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli tornare in sé!” “Ciò dimostra che anche una banda di bruti può essere fermata semplicemente perché son pur sempre esseri umani. Chissà forse avremmo bisogno di una polizia composta di bambini. Voi ragazzi stanotte siete riusciti a far sì che W. C. si mettesse nei miei panni per un attimo, e ciò è bastato”.
La risposta di Attycus racchiude la chiave antica dei nostri misteri di grandezza e redenzione, non importa in quale pozzo di bassezza siamo andati a cadere, nelle azioni, nelle opere e nelle omissioni. La chiave è l’empatia e soprattutto ciò che ne consegue. Chiave di volta, in questi tempi di profonda violenza verbale a cui non raramente fa seguito violenza fisica e di cui la sfera social sembra ergersi ad arena senza confini. Arena in cui siamo immersi che promette interconnessioni e, bolla su bolla, finisce talvolta per edificare muri.
Leggendo questo passaggio, il richiamo a ciò che succede in quelle dinamiche che fanno dei social una sorta di violenta cloaca sociale è stato pressoché immediato, insieme al richiamo di un libro precedentemente letto, meno celebre de “il Buio oltre la siepe, ma comunque un piccolo capolavoro (nel suo genere). Se fossi un’insegnante proprio in questi anni ne farei un testo di lettura obbligata.
“Il buio oltre la siepe” di Harper Lee chiama “Vita breve di un giovane gentiluomo” di Jean Teulé
“Vita breve di un giovane gentiluomo” Mangez-le si vous voulez
“Il buio oltre la siepe” mi ha chiamato alla mente “Vita breve di un giovane gentiluomo” di J. Teulé, edito in Italia nel 2011 da Neri Pozza, dal titolo originale molto più appropriato (come quasi sempre succede con i titoli originali) “Mangez- le si vous voulez”, ovvero “Mangiatelo se volete”. Crudo quanto la storia reale che racconta.
La giornata del 16 agosto 1870 per Alain de Monnéys è davvero una giornata campale. Esce di casa da stimato cittadino e benvoluto vicesindaco di Bessauc nel Perigord francese, e non vi farà mai ritorno perché letteralmente mangiato dalla folla dei suoi concittadini. Scrittura superba in una cronaca che sembra sempre sull’orlo di provocare un sorriso, se non fosse che esplode a un certo punto in un vero delirio tragico. Alla base del rivolgimento del sentimento popolare verso il giovane Alain, una voce diffusasi tra la folla (mi verrebbe da dire in rete, ma ops siamo nel 1870) di una sua defezione a favore dell’esercito prussiano (contro cui si era arruolato) e di atti di conclamata infedeltà all’imperatore. Voci. Non verificate. Che il lettore sa essere false. Ma impotente, come il protagonista, assiste al montare della rabbia cieca (ma è poi rabbia la parola giusta?) della folla e alla sua azione violenta e omicida fino a sfociare in episodi di vero e proprio cannibalismo.
“Mangez-le si vous volez” è l’invito provocatorio del semi-attonito sindaco, che viene preso alla lettera dai suoi concittadini in un vortice di inspiegabile violenza e follia omicida. Talmente inspiegabile che durante il processo, che vedrà pochi tra i facinorosi sul banco deli imputati (usiamo facinorosi solo convenzionalmente perché si fa fatica a trovare parole adatte al caso), uno tra loro dirà forse l’unica verità plausibile “Non so cosa mi sia preso”.
Su questo non sapere, e su quello che ci prende quando ci alieniamo da noi stessi – e dagli altri che poi è solo l’altra faccia della medaglia del fenomeno – si giocano le sorti dei singoli che ci passano accanto e del mondo intero, sui social e nelle nostre realissime giornate.
Pensiamoci. E se può aiutare leggiamo e facciamo leggere questi due libri, necessariamente sconvolgenti.
Non riuscirai mai a capire le persone…
PS: “Il buio oltre la siepe” mi è stato regalato da una tra le persone che più stimo, mia amica e al tempo collega. Nella sua dedica il senso.
“…non riuscirai mai a capire le persone se non ti metterai nei loro panni e proverai a vedere le cose dal loro punto di vista…”
con grandissimo affetto
Maria
#unlibrochiamalatro sinapsi letterarie è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.
Queste sono le sinapsi letterarie di Chiara B. (me medesima), incontrollabili dalla stessa autrice e perciò insindacabili.
Volevo scrivere de “L’acqua del lago (che) non è mai dolce” ma poi ho incontrato Rebecca Solnit e i suoi “Ricordi di inesistenza”
Quanti modi abbiamo di diventare noi stesse: tanti e probabilmente nessuno troppo facile. Quanto conta il posto dove siamo, quello dove scegliamo di andare o di stare nel periodo della muta, che dura anni o decenni o forse tutta la vita. Di certo c’è un tempo, un modo e un luogo in cui decidiamo, non chi voler essere ma a quale lato di noi dare un’opportunità, quale coltivare, quale far crescere per poi in un tempo futuro andare a raccogliere la restante parte, missione quest’ultima altrettanto avvincente.
C’è un tempo nella nostra vita in cui saremo integre, ma in quello che io chiamo il tempo della muta ci centriamo su una parte di noi stesse che noi eleggiamo a nostro centro, da cui la nostra evoluzione prenderà forza energia propulsiva per il resto della nostra vita (con i nostri inevitabili stop and go). Una specie di centro karmico se volete, il nostro Io, quella particolare combinazione di neuroni, cellule ed emozioni che darà la direzione alla nostra evoluzione di donne. E ci sono posti in cui consapevoli ci dirigiamo e a volta stanziamo che assistono al travaglio, fino al parto di noi stesse. Perché qui parliamo di donne e di un “moto” a noi stesse. Alla nostra identità situata.
Essere una donna è una discriminante? Si lo è
Lo è stata per le generazioni precedenti alla nostra, e lo è oggi, su intensità e passaggi diversi, forse, o forse neanche troppo diversi. E’ giusto che lo sia, perché siamo diverse, il punto è capire in che modo. Se a modo nostro o no.
Cosa succede in questo tempo, in questo luogo, in questo moto è il centro di due storie che senza volere si sono sovrapposte nelle mie letture recenti ( e nelle mie sinapsi letterarie).
Una rossa Gaia in “L’acqua del lago non è mai dolce”, di Giulia Caminito (tra i candidati Premio Strega 2021, edito da Bompiani) e un’immensa Rebecca in “Ricordi della mia inesistenza” Rebecca Solnit (edizioni Ponte alle Grazie).
Gaia, e l’acqua del lago che non è mai dolce
In “L’acqua del lago non è mai dolce”, una bambina, poi adolescente, poi giovane adulta si muove tra Roma e la sua provincia, nello specifico Anguillara Sabazia e i borghi attorno al lago di Bracciano, alla ricerca sofferta e rabbiosa di sé. Interessante per me la vicinanza dei luoghi alla mia residenza attuale e l’impenetrabilità del personaggio, piuttosto monolitico e ostinato, da apparire quasi monodimensionale pur lasciando intuire spiragli di dolore e debolezza profondissima. Incapacità di leggersi e di tradursi, di offrirsi all’esterno, nelle amicizie, negli amori, seppur adolescenziali, nelle passioni, praticamente inesistenti. Un personaggio che mi piacerebbe interpretare teatralmente, per il non detto e per quanto si può di questa rossa intuire dalla sua apparente non relazione con gli elementi del contesto: dalla famiglia, disperata ma ostinata nella sua sopravvivenza a conduzione matriarcale, alle amiche del cuore, alleate strumentali alla sopravvivenza, agli amori costruiti e a quelli – suo malgrado – impossibili da reprimere, grimaldello della sua identità.
Rebecca, e i ricordi di inesistenza di tutte noi che poi abbiamo scelto di esistere
Rebecca Solnit racconta se stessa, negli anni dell’esplorazione di sé e della scoperta e della formazione di questo pensiero coraggioso, dissacrante e profondamente innovativo, che si dispiega e si forma nei ”Ricordi della mia inesistenza”. Per me qui il sottotitolo è “Storia di una libertà”. Non nasciamo libere, ma lo diventiamo. Per alcuni è più difficile,. Per le donne il percorso verso la libertà personale ha più ostacoli, che si aggiungono a quelli sacrosanti che ciascuna persona, a prescindere dal genere ha. Attraverso i suoi ricordi Rebecca Solnit ci racconta come è arrivata a fare il lavoro di giornalista, saggista, intellettuale, documentarista che fa e soprattutto come è arrivata a farlo nel modo che è suo, che le appartiene. Come è diventata la donna che è: viaggiatrice, pensatrice, ironica, acutissima, con le relazioni che ha scelto di avere e quelle che non ha voluto sedimentare. Nel farlo ci racconta la San Francisco degli anni ’70fino a quella degli anni ’90, vissuta in prima persona tra i centri culturali d’avanguardia e i movimenti per i diritti civili, lontano dal presidio della cultura più intrisa di occidente che nella Est Coast sembrava strizzare l’occhiolino all’Europa. Nel raccontare il suo lavoro di ricerca sulle comunità artistiche degli anni ‘50 ci racconta pezzi di storia che spesso mancano alla narrativa sulla mitica West Coast, e portandoci nei suoi viaggi nel deserto del Nevada e o al Sud nel Mexico ci racconta una battaglia ambientalista attraverso uno sguardo pionieristico e genuinamente alternativo.
La sua storia è la lettura immersiva ed esperienziale di un contesto in fermento con gli occhi profondamente intelligenti di una donna, che diventa femminista per presa di coscienza.
Alcuni libri si mangiano
Questo è quello che io chiamo un libro da “mangiare”, perché è nutriente e fa bene. Da regalare alle persone in cerca di identità e soprattutto a chi sta rischiando di perderla nel conformismo o nello scoraggiamento di questi nostri giorni.
Non rimpiango (quasi) mai le mie letture, come le mie esperienze. Però non tutti i libri vanno nel mio scaffale dei “libri che amo”, ancor meno in quello dei necessari.
Rebecca Solnit* con i suoi “Ricordi della mia inesistenza” c’è, e ci resterà.
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*Rebecca Solnit , per rendere l’idea, è quella del mansplaining, o meglio – come lei racconta – fu un lettore del suo celeberrimo saggio “Gli uomini mi spiegano cose” a coniare questo neologismo per identificare il fenomeno da lei individuato e descritto, quando ahimé ne eravamo già afflitte senza averne sufficienza coscienza. Il saggio è del 2008, il New York Times ha eletto “mansplaining” parola dell’anno nel 2010 e nel 2014 è il termine è entrato nel dizionario.
#unlibrochiamalatro sinapsi letterarie è la rubrica Coffee N’Roses dedicata alla lettura e a quello strano, personalissimo processo per cui leggendo un libro te ne torna alla mente un altro.
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Abbiamo fatto molte passeggiate in questo inverno, nell’anno della pandemia. La natura ci ha salvati in tanti giorni e così la memoria, attraverso le parole del dialetto e le immagini di questa nostra piccola storia, rannicchiata tra i Monti Aurunci. Cosi la storia del nostro paese, Coreno Ausonio, ci torna e ritorna, a sorsi, davanti agli occhi. E nel cuore. Ci prepariamo a entrare nella primavera. E a tutto quello che rinascerà, sempre e nonostante tutto. Qui il video con le parole che abbiamo incontrato, nell’ultima passeggiata di inverno (2021).
La memoria ci insegna la resistenza e una forma atavica di resilienza.
Come la stramma, la prima parola che abbiamo incontrato in questa nostra passeggiata invernale. Un’erba infestante che ha saputo donare al territorio corenese, nel tempo, una risorsa economica importante, in una filiera micro-imprenditoriale sviluppata artigianalmente attorno allefugniovvero le funi, agli capisti – le funicelle poco lunghe usate per legare le fascine di legna o la stramma appena raccolta – finoagli strugli usati per comporre le rate, piani di appoggio per distendere ed essiccare cibarie varie, soprattutto uva e fichi.
Parole di memoria sparse nell’inverno
Come sempre quando camminiamo nella natura corenese, abbiamo incontrato innumerevoli cerque, le querce, svestite per la stagione e le loro simpatiche “palline” gli cucùri, in aggiunta alle preziosissime gliande, le ghiande.
Arrivederci, Inverno!
Con questo video salutiamo l’inverno, che abbiamo attraversato da dicembre a febbraio e ci prepariamo alla prossima passeggiata di primavera. A tutti buon tuffo nella memoria, negli odori, nelle atmosfere e in quella promessa di felicità semplice che solo i ricordi che la nostra terra emana ci sa dare.
Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, ogni suggestione evocata o correzione della trascrizione è benvenuta!
Se condividete lasciate una traccia con #caffeconrose #paroledimemoria
Per comunicare scrivetemi a caffeconrose@gmail.com (Chiara) Ps: a breve avremo la nostra piccola newsletter, ma al momento intrattengo ancora ed esclusivamente corrispondenze “di penna” (via email) ;0)
Natale 2020 a Coreno Ausonio (FR). Passeggiando sulle nostre montagne “pe’ la via re Vallauria” abbiamo incontrato i ricordi delle nostre tradizioni natalizie.
Le parole hanno portato le immagini e la memoria ha preso a camminare insieme a noi al ritmo di una filastrocca che inizia così: “Oì zia Cosa scegnesce caccòsa...” (…).
La casella della Ripa, sotto il monte Maio: la memoria dei miei bisnonni
Ci siamo fermati alla casella della Ripa, per condividere e fissare le parole in immagini. La Ripa, la casa in pietra nel video, era la casa di campagna dei mie bisnonni. Mia nonna mi racconta sempre delle sue estati qui, e della sosta d’emergenza per sfuggire ai rastrellamenti dei tedeschi (che comunque arrivarono anche qui) prima di essere sfollati fuori dal territorio di Coreno (ma questa è un’altra Storia).
A riprendere Sergio Monetta, a ricordare mio padre Antonio (da sempre Tonino), ad ascoltare io e mio fratello Flavio.
L’orizzonte invernale, gli ulivi e le nostre pietre sempre al nostro fianco. Davanti a noi Gaeta che poggia nel Golfo come una balena ormai familiare. Il vento a tratti fortissimo.
Auguri di resistenza e resilienza nel 2021
Questo breve video parla di noi. E per tutti noi è un augurio di resistenza, resilienza e di una certa inspiegabile fiducia nella vita che contraddistingue le nostre radici contadine.
Le #paroledimemoria di dicembre nelle filastrocche di Natale
In questo mese abbiamo raccolto il ritmo della felicità semplice e inspiegabile che scandiva i giorni di Natale negli anni del dopoguerra, anni di difficoltà economica ma di grande dignità, e come ricorda mio padre “di grandi sogni”.
Gliu cocò / zia Cosa
Gliu cocò è lo strumento che ha dato il nome all’intero “rito”, un antesignano del “dolcetto – scherzetto” che si accompagnava di filastrocche che suonavano così:
Oi zia Cosa, scegnésce caccòsa,
caccòsa alla spagnola / alla salute re zi' Gnicola. E si ce l'adda scegne, scegnascella lestu, lestu e correnno ca tama i' cantenno,lestu e correnno ca tama cammina'.
E continuava con una serie di strofe “augurali”, tipo:
Si ce scigni nu corneglio (= dolce tipico natalizio) puzzi fa' nu figliu beglio, si ce scigni na caramella puzzi fa' na figlia bella (...)
E alcune personalizzabili, come:
Agliu susciu, agliu susciu,si thu nu me canusci, so gliu figliu re Bongiuagni, scegnamigliu nu pirtuagliu (= arancia)
Gli cunthi sono i racconti della tradizione, prevalentemente orale (mi piacerebbe ricordarne per intero almeno uno di quelli che mi raccontava la mia bisnonna) e le suscelle sono le carrube, usate nell’immediato dopoguerra (anche) come surrogato dei dolci per i bambini.
E’ solo un assaggio del Natale corenese, parole portate dal vento in una delle nostre passeggiate dicembrine nella natura che abbraccia per intero il nostro paese. Come sempre niente di troppo serio ed esaustivo, se avete strofe, tradizioni e parole di memoria da aggiungere… sono benvenute, come ogni altra suggestione o correzione della trascrizione!
Bono Natale, megliu Capu r’agnu, come gli ‘amo vist’auanno accussi a centautagni
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Manteniamo viva l’identità del nostro territorio, attraverso il suo dialetto.
Camminare nella natura attraverso le stagioni è un esercizio di memoria. Spesso lo faccio con mio padre e nel camminare incontriamo parole del nostro dialetto. Pezzi di storia, pezzi di memoria, pezzi di noi.
Qui le parole di novembre, ritrovate camminando nella campagna di Coreno Ausonio (FR).
Parole di memoria. Novembre , Località: Bareoglie, Coreno Ausonio (FR) [riprese Sergio Monetta; starring il signor Tonino aka mio padre]
Cosa è Parole di memoria
Attraverso le parole del nostro dialetto recuperiamo ogni mese ricordi e manteniamo viva l’identità del nostro territorio, che è anche la nostra.
Partiamo a novembre, da Coreno Ausonio (FR), il “mio posto”. Scopriamo le parole di questo mese e la storia che raccontano, nel loro piccolo. Ci aiuta mio padre, il “signor Tonino” come (secondo me) felicemente ribattezzato dalla mia amica ig @ladydiprovincia. Le parole di novembre che trovate nel video : – chiàtema – scocciacannàte – ventrìscu + un modo di dire sul tempo incerto.
Parole di memoria è una rubrica mensile che serve in primis a noi, per riconoscere le radici e non perderle. Speriamo piaccia anche a voi.
PS: di Coreno Ausonio sentirete ancora molto parlare, intanto qui un po’ di riferimenti geografici, come ben sintetizzati da qualche compaesano volenteroso su Wikipedia.
“Coreno Ausonio si trova a 318 m s.l.m., su un altipiano posto sul fianco sud-ovest del Monte Maio (m 940), facente parte della Catena dei Monti Aurunci. L’abitato non dispone di un unico centro storico, ma è diviso nei suoi caratteristici antichi rioni, costruiti di solito intorno a un solo casale originario che s’ingrandiva, stanza dopo stanza, per via dell’incremento demografico delle famiglie, che prendevano i nomi degli edificatori primordiali.
Il territorio comunale presenta le caratteristiche di un territorio montano che digrada a uno collinare, con un andamento da nord-est a sud-ovest. Le altre cime dei monti Aurunci, presenti nel territorio, sono il monte Rinchiuso (778 m), il monte Feuci (830 m) e il monte Reanni (554)” (…)
******* Se interessati al tema della memoria, consiglio:
Quando perdo lucidità o interesse nell’osservazione delle persone reali, per non essere contagiata dal mio stesso pessimismo antropologico (latente ma vigile), mi giro a guardare le persone che incontro nei libri, facendo finta che non siano ancora più reali di quelle che incontro fuori. Così in questi giorni mi capita di concentrarmi su una mia “lunga” conoscenza: Lizzie di Shirley Jackson, incontrata mesi or sono nell’omonimo romanzo.
Dico lunga perché questo libro l’ho molto desiderato, ho girato diverse librerie prima di trovarlo disponibile, ho iniziato a leggerlo con grande entusiasmo e curiosità verso questa ragazza apparentemente svampita e regolare, ma a un certo punto Lizzie ha iniziato a infastidirmi. E quindi non sono riuscita a leggere la sua storia, se non a piccole dosi. Risultato: l’ho finito solo qualche giorno fa.
Pensando a Shirley Jackson, alla sua scrittura e poi guardandola negli occhi (in foto), ho avuto da subito l’impressione di essere davanti a un’anima gotica e immaginifica, con una punta di ironia da non sottovalutare mai.
Avevo letto “Abbiamo sempre vissuto nel castello” e mi aveva letteralmente deliziata, avevo degustato ogni giorno, come in un rituale tè corretto all’alcool puro, quella dissonante armonia familiare quotidianamente celebrata in un ambiente che prometteva radiosità e restituiva mistero.
Lizzie, no. Non sono riuscita a frequentarla se non a piccole dosi. La sua personalità caleidoscopica e violentemente screziata, divisa nelle sue quattro ragazze – Elizabeth, Beth, Betsy, Bess – mi ha restituito la percezione interiormente distopica di una personalità, disintegrata ma potentissima.
Questo è quello che mi è piaciuto di Lizzie, nel suo essere disturbante: la potenza. Il suo imporsi, in una vera e propria tragedia personale dell’identità, senza scendere a compromessi e mediazioni con se stessa, senza possibilità di ricomporsi, senza volontà in fondo di ricomporsi, nella purezza di ogni singola persona che abita il suo essere.
Così mi ha colpita nell’anima questa Lizzie molteplice, incapace di generare alcuna forma di equilibrio, per quanto posticcio, in se stessa che le permettesse di continuare a vivere in società, pur a suo modo provandoci.
Per questo, il finale mi ha fatto piangere.
L’annullamento di una identità disturbante, nei suoi chiaroscuri violenti, in una ricomposizione pacifica, armoniosa e quasi amabile, talmente vuota da poter essere riempita dalle proiezioni dei suo assassini benefattori, il dottor Wright e la zia Morgen.
Così si celebra la vittoria di un terapia appassionata e movimentata, mossa dall’umana buona fede e sostanziale benevolenza di medici e familiari,
Alla fine Lizzie non c’è più, ma io penso che altrove tornerà.
***** Piccola nota ( e un film in arrivo)
“Lizzie” è un romanzo di Shirley Jackson del 1954, edito in Italia da Adelphi. Da “Lizzie” è stato tratto il film “La donna delle tenebre”, di Hugo Haas con l’interpretazione di Eleonor Parker. Io non l’ho visto, ma conto di recuperare.
Shirley Jackson nasce a San Francisco nel 1916, sotto il segno del Sagittario. Vive e scrive per vent’anni in un villaggio del Vermont, North Bennington con il marito e i tre figli. Qui muore nel 1965. A Shirley Jackson è ispirato il film Shirley che, diretto da Josephine Decker con Elizabeth Moss, ha debuttato quest’anno al Sundance Film Festival, e pare che uscirà (speriamo on line) il 5 giugno. PS se siete curiosi di vedere il volto di Shirley Jackson (l’originale), qui un assaggio di immagini da Google.
E’ stato con grande piacere e sorpresa che – insieme a cibi, musica e nuove relazioni – durante la Festa Nazionale dei Borghi Autentici d’Italia a Barrea (Abruzzo), ho gustato la proiezione del docufilm “In questo mondo” di Anna Kauber, dedicato alle pastore italiane.
Un racconto corale e senza trama apparente, che scorre in un cammino lento e sorprendente attraverso le terre alte italiane e la loro bellezza aspra e profonda, oltre ogni stereotipo di genere e vari altri.
“In questo mondo”, titoli di coda
Al centro le pastore, narratrici e uniche attrici di una realtà ai più insospettabile: in Italia esistono decine e decine di donne pastore, presenti in tutte le regioni (oltre cento quelle censite e ascoltate da Anna Kauber nel suo lavoro di ricerca e racconto) .
Venti le pastore che nel docufilm danno voce e volto a una verità per me ancora più sconcertante: essere pastora è oggi in Italia una scelta ed è una scelta di profondissima libertà.
Di stereotipi le pastore ne confutano molti, rendendo evidenza di una profonda intelligenza femminile che prescinde dalla “capacità” (fisica e non solo) che la gestione di greggi e mandrie richiede, per di più in alta quota e in alcuni casi addirittura in mobilità continua, senza una “stalla fissa”. Per come la vedo io sarebbe bello se ognuno trovasse in questo film il suo stereotipo da farsi confutare. Dai modelli patriarcali in ambienti rurali alla determinazione femminile in culture ostative del cambiamento in continuità eterna con la tradizione, dalla questione delle terre alte e del loro spopolamento di senso, persone e attività a un modello di pastorizia al femminile connotato in maniera del tutto specifica, da una espressione fortissima di “sorellanza” e di empatia con gli animali a un nuovo ambientalismo fino a un femminismo “radicale” nel vero senso del termine che diventa perciò profondamente rivoluzionario. Un senso positivo della vita e una profonda accettazione della morte. Scegliete voi cosa le donne pastore possono insegnare.
A me hanno lasciato due impressioni molto forti:
la capacità profonda di amare e apprezzare la natura rende le persone creatrici di poesia e trasmettitrici di bellezza, anche in contesti e attraverso immagini non facili;
la libertà intellettuale prescinde dal livello di istruzione e da qui una catena di pensieri sull’emancipazione femminile e sugli stereotipi in cui l’abbiamo imbrigliata, pur in buona fede. Non escludo affatto che su questo dovremmo fare due, tre o anche quattro passi indietro, come magistralmente ha fatto la regista, durante le riprese.
In ultimo, ma non da ultimo, sorprendente e rincuorante che le Pastore esistano “in questo mondo” e siano per un verso o per un altro donne come noi. (vedere il film per credere)
Ps: non è piaciuto solo a me!
Anna Kauber alla proiezione del suo docu-film “In questo mondo”, a Barrea
Commenti entusiastici e vibranti quelli raccolti nella saletta di Barrea, a conferma di un curriculum già di rilievo. “In Questo Mondo” è stato il Vincitore Miglior documentario Italiana.doc al Torino Film Festival 2018, perché riconosciuto come un “film immersivo che rende le immagini corporee e ci contagia con i segni di un rapporto vivo e appassionato al mondo”. Interessante sapere, come Anna Kauber con giusto orgoglio rivendica, che “In questo mondo” è nato da un lavoro sul campo durato due anni, che ha di fatto aperto un filone di ricerca multidisciplinare sulla pastorizia femminile in rapido sviluppo. Assolutamente da tenere d’occhio.
Le pastore, una a una
Le cito perché i loro nomi ( e i loro volti) sono la storia: Maria Pia Vercella Marchese, Michela Battasi, Donatella Germano, Rosetta Germano. Gabriella Michelozzi, Caterina De Boni Fiabane, Assunta Valente, Anna Arcari, Maria Oliveto, Efisia Podda, Lucia Colombino, Marica Colombino, Elia Nicolai, Alessandra Tomei, Addolorata Di Fiore, Rosa Aquilanti, Brigida Ciorciaro, Rosina Paoli, Anne Line Redtroen, Aste Redtroen, Assunta Calvino, Michela Agus.
Se lo avete visto o se lo vedrete, fatemi sapere che ne pensate!
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La proiezione del docu-film “In questo mondo” a Barrea, durante la Festa Nazionale dell’Associazione Borghi Autentici, lo scorso 31 agosto non è casuale. Per capire cosa intendo, qui sotto la presentazione dell’Associazione, come da loro sito.
Borghi Autentici d’Italia è una rete fra territori dove protagoniste sono le persone e le comunità, realtà che decidono di non arrendersi di fronte al declino e ai problemi ma che scelgono di mettere in gioco le proprie risorse per creare nuove opportunità di crescita: realtà che appartengono a quell’Italia che ce la vuole fare.
ps: foto prese in prestito da Sergimon, perché il mio smartphone – macchinetta fotografica – tante altre cose è morto senza appello qualche giorno fa.
“C’era, ormai, come un rumore speciale, un fruscio di germogli che saliva dall’Archivio, che dopo tanti anni si riempiva di storie di italiani; un rumore che era fatto di questo insieme di voci di tanti “senzastoria” che raccontavano la storia di un popolo . E noi avevamo il privilegio di ascoltare questo rumore speciale”. (Saverio Tutino, fondatore Archivio Diaristico Nazionale)
[Da qualche parte bisognerà pur cominciare, e io comincio da qui]
La prima cosa che mi colpisce è che il Piccolo museo del diario è ospitato da un Palazzo “resistente”:Il Palazzo Pretorio, sopravvissuto alla distruzione di Pieve Santo Stefano perché “graziato” dalla mina sottostante che non esplose.
Una strana, dolce ironia della Storia vuole che questa perla della memoria collettiva italiana sia nata proprio qui. Pieve Santo Stefano, cittadina di poco di più di tremila abitanti in provincia di Arezzo, fu infatti completamente minata e rasa la suolo dalle truppe tedesche nel 1944, dopo essere stata evacuata.
Del borgo originario non restano che pochissimi elementi architettonici, tra cui il Palazzo Pretorio, che ospita contemporaneamente il Municipio e, dal 2013, il Piccolo museo del diario. Nella piazza adiacente, si troval’Archivio Diaristico Nazionale che, per una grandiosa intuizione del giornalista Saverio Tutino e grazie al lavoro instancabile di volontari e appassionati, dal 1984 raccoglie diari, lettere e memorie delle persone italiane. E, insieme alle loro storie, custodisce la nostra storia, le sue luci, le sue ombre, la sua umanità profonda e complessissima. Ad oggi circa 8000 i documenti conservati in Archivio.
Ho visitato il Piccolo museo del diario nel giorno del mio compleanno, perché il diario per me è la vita celebrata in parole e ne ho uno(o meglio decine) da quando sono nata alla scrittura. Non voglio descrivervi il museo, perché è un posto dove dovete andare. Voglio piuttosto suggerirvi di andare a Pieve Santo Stefano e visitare il Piccolo museo del diario, per vari motivi.
Andate se amate le parole, se amate le storie, se amate la vita, fuori da ogni retorica e semplice entusiasmo, andate se non la capite e se sospettate che mai esisterà un codice di condotta per viverla “in normalità”. Se vi sentite poveri in immaginazione, se avete vissuto n vite immaginarie in parallelo a quella che noi tutti vediamo quando vi affianchiamo per ore, giorni, anni, andate se credete che la realtà superisempre l’immaginazione, ma ancora (vi assicuro) non potete sospettare di quanto.
Se seduti sull’autobus vi trovate a chiedervi cosa scorra nella vita della persone sedute accanto a voi, dal viso stanco o dallo sguardo radioso,se con la genuina passione dei lettori o dei cinefili pensate che le più grandi storie che avete conosciuto siano quelle raccontate nei capolavori del cinema e della letteratura ma non temete di essere smentiti.
Se credete che l’unica vera materia prima degli scrittori sia la vita, dovreste venire ad ascoltare queste pagine parlanti, di ogni età, colore, orizzonte valoriale, dottrina politica, fedina penale, Di donne che hanno avuto il coraggio di esigere rispetto per i propri diritti nell’Ottocento come oggi, di donne che nella casa acanto alla nostra lottano contro la violenza, contro la nevrosi, contro la monotonia. Di uomini che hanno commesso i più efferati crimini, di ragazzi che li hanno subiti e hanno dato la vita per la libertà di altri, di adolescentiche scoprono la magia della musica e il fuoco dell’arte, di giovani che sperano nel futuro e raccontano il presente, di padri di famiglia, in carcere, che hanno rubato, ammazzato e tornerebbero a farlo.Di persone analfabete che raccontano la più grande epopea, di donne e uomini dalla creatività straordinaria che raccontano, raccontano per amore della vita, per dovere di memoria, per non morire del tutto.
Camminando in questo piccolo, ma densissimo museo conoscerete Clelia e Anteo, Luisa, Vincenzoe molte altre storie.
Clelia Marchi, autrice del Lenzuolo ” Gnanca na busìa – Il tuo nome sulla neve”
Aprirete dei cassetti che vorreste forse non aver aperto perché quello che troverete ve lo porterete dentro per molto tempo e forse per sempre. Forse, andrete lì perché amanti della scrittura e avidi delle infinite storie che sa raccontare e incontrerete la Storia, con il suo inesorabile giudizio sospeso sulla vita degli uomini e delle donne che la attraversano.
La grande magia di questo piccolo posto è tutta qui. Ti consegna la Storia sotto sembianze che non ti aspetti, così che ti travolge attraverso le sue migliaia di storie mai banali, travagliate, sofferenti e profondamente inaspettate. Richiama la tua piccola vita alla Storia e ti fa sentire un po’ più vicino agli altri, nel tempo e nella società che attraversi senza averlo scelto.
Vincenzo Rabito, autore del diario di vita “Terramatta”
All’attività dell’Archivio è collegato il Premio Pieve per la Diaristica. Ogni anno, a seguito del giudizio di una Giuria popolare e di una Giura “tecnica” , il premioviene assegnatoa un’opera che sarà poi pubblicata
Probabilmente vi verrà voglia di leggerli tutte Io alla fine ho riportato a casa Terramatta –diario di una vita scritto da Vincenzo Rabito, cantoniere semianalfabeta, nato a Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa nel 1899 (edizioni Einaudi).
Per ora lo sta leggendo mio padre, ma nelle vacanze di Natale sarà sul mio comodino.
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Post Scriptum: Ho omesso di raccontare i particolari dell’esposizione e di mostrare foto perché il mio consiglio è di non leggere troppe descrizioni prima della visita. (Considerate che c’è una guida strepitosa in loco, che si chiama Luigi).
Può essere tuttavia utile qualche indicazione sul “come fare per”.
Pieve Santo Stefano dista da Roma poco meno di tre ore di macchina.
Il Piccolo museo del diario si trova nel Palazzo del Municipio, nella piazza principale del paese, che è ad oggi molto piccolo. Il museo raccoglie una minima selezione di materiali provenienti dall’Archivio, resi fruibili in format del tutto particolari. Accessibile da piazza Plinio Pellegrini 1, il museo è aperto al pubblico dal lunedì al venerdì (giorni feriali), dalle 9:30 alle 12:30 e dalle 15:00 alle 18:00. Sabato, domenica e festivi è aperto di pomeriggio dalle 15:00 alle 18:00. In alcune date dell’anno il Museo è chiuso. Per accertarvi di questo e per ogni altra info il sito: Piccolo museo del diario].
Il Piccolo museo del diario è davvero molto piccolo, ma molto denso e vi consiglio di non rifiutare l’offerta della visita guidata, di una ricchezza estrema. Calcolate non meno di due ore per una visita mediamente approfondita, che può durare anche di più se volete curiosare e godere di tutti i materiali disponibili.
L’Archivio Diaristico Nazionale, aperto per consultazioni e ricerche, si trova nella Piazza immediatamente adiacente. Tutti i documenti che arrivano ogni anno da tutta Italia, vengono esaminati, catalogati per anno di arrivo e conservati in questi armadi. [Tutte le info sul sito: Fondazione Archivio Diaristico Nazionale]
Le persone che curano il Piccolo museo del diario sono squisite, estremamente appassionate, preparate e disponibili, Per questo, vi consiglio di rivolgervi a loro se avete intenzione di fare ricerche o avere informazioni più dettagliate.
Se pensate di dormire nei paraggi, considerate che Pieve Santo Stefano si trova immerso nella Valtiberina, a due passi da Sansepolcro.